Decisione e idealizzazione

Decisione e idealizzazioneDecidersi ha come finale un atto concreto che rompe l’indugio, libera energia e rende reale qualcosa che fin lì si era solo immaginato: una telefonata difficile ad un collega, l’invio di una mail scritta e riscritta infinite volte, la scelta di andarsene, la firma di un nuovo contratto, una dichiarazione d’amore.

Quel sostare nell’incertezza che precede la decisione genera una tensione che alimenta contemporaneamente il timore e il desiderio di procedere: un dialogo interiore a volte creativo e piacevole, altre volte faticoso e difficile, che prelude un cambiamento. Più la decisione ha a che fare con cambiamenti importanti della nostra vita personale o professionale, più questa tensione è difficile da contenere.

Per alcune persone questi momenti sono tutt’altro che facili: c’è un indugiare estenuante nell’attesa, una tensione pesante e paralizzante, un sovrainvestimento di analisi e riflessione, spesso accompagnati da un sentimento ansioso o vagamente depressivo o entrambe le cose.

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Oltre il senso di colpa (mamme che lavorano)

senso di colpa mamme che lavoranoNon è solo un gioco di parole: penso davvero che si possa dare un senso al senso di colpa delle mamme che lavorano. Penso anche che se il senso di colpa venisse adeguatamente compreso e trasformato potrebbe diventare una risorsa emotiva da utilizzare anziché un sentimento sgradevole da ricacciare in fondo all’animo o rimuovere. Anche perché il rimosso cacciato dalla finestra rientra mascherato dalla porta.

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Vacanze, rientro e cambiamento

Vacanze rientro e cambiamentoCi sono infiniti modi di organizzare e godersi le vacanze. Possono essere la continuazione del ritmo quotidiano e lavorativo, dove lo svago è strutturato da sveglie e agende, per organizzare il tempo che rischierebbe di essere altrimenti libero. Possono essere un vagare attivo, ma meno compulsivo, con attività poco premeditate, ma che comunque impegnano e scandiscono le giornate. Oppure possono essere vacanze in senso letterale, uno stare nel vacuum per l’appunto, e quindi una sospensione radicale di qualsiasi attività operativa a favore di altre contemplative e oziose, quasi melanconiche.

In questo vagare, che è del fisico, della mente e anche dell’anima, si crea talvolta uno spazio per pensare a sé, a ciò che siamo e facciamo, a nuove possibilità per il futuro.

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Meno ansia al lavoro: chiarezza, progettualità e network.

Meno ansia da lavoro e come gestirla con chiarezza, progettualità e networkNon ci sono ricette, in realtà. La vita professionale spesso ci riserva fatiche che richiedono tutte le nostre energie, sensibilità e capacità. In qualche caso non ci sono scorciatoie e l’ansia è il dazio da pagare per ottenere soddisfazioni e riconoscimenti o per stare al passo col ritmo che ci viene richiesto. O semplicemente per tener duro e strappare al mondo del lavoro quel minimo che ci spetta per poter vivere decentemente.

È importante però non superare i livelli di guardia: l’ansia oltre un certo limite rischia di cronicizzarsi e di diventare patologica.

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L’ansia, un urlo silenzioso

Ansia urlo silenziosoL’ansia è un urlo silenzioso, un modo complicato per dire a noi stessi che non siamo d’accordo con ciò che stiamo facendo e con ciò che gli altri stanno facendo con noi.

Può sembrare strano considerarla in questo modo perché non è così che l’ansia si manifesta. Per molte persone è proprio l’incapacità di urlare (o di aver urlato) le proprie ragioni a generarla.

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Mobbing: i sette parametri riconosciuti per valutarlo

Non tutte le vessazioni e violenze subite sul lavoro si possono configurare come mobbing. Prima di attivare qualsiasi iniziativa legale è importante accertarsi che gli episodi verificatisi rientrino in alcuni parametri riconosicuti.

Ci sono diversi parametri di riconoscimento del mobbing che sono comunemente riportati in letteratura. Un metodo di valutazione del mobbing diffusamente riconosciuto e applicato è quello di H. Ege, che è uno degli esperti più autorevoli e accreditati del settore (schema LIPT – Leymann Inventory of Psychological Terrorism – di Leymann e metodo Ege).

Qui di seguito indico i parametri che sono stati applicati in diverse sentenze di Tribunale (es. Trib. Bari 20 febbraio 2004, Trib. Forlì 28 gennaio 2005, Trib. Agrigento 1 febbraio 2005) e che la Corte di Cassazione ha negli ultimi anni stabilito come parametri tassativi per il riconoscimento del mobbing (Cassazione civile, sez. lav., decisione n. 10037 del 15 maggio 2015).

Perché si configuri come mobbing devono verificarsi tutte e sette.

1. Ambiente lavorativo

Il primo parametro stabilisce che il conflitto deve svolgersi sul posto di lavoro. Non è sufficiente che sia sono in relazione all’attività professionale, ma deve svolgersi sul luogo di lavoro.

2. Frequenza

Il secondo parametro indica che le azioni ostili devono accadere almeno alcune volte al mese. Le vessazioni e le violenze psicologiche devono avere carattere di frequenza e sistematicità e non trattarsi di episodi sporadici ed eccezionali.

3. Durata

La durata indicata dalla Cassazione, e riportata quasi all’unanimità degli esperti è di un periodo superiore ai 6 mesi.

4. Tipo di azioni

Le azioni devono appartenere ad almeno 2 delle seguenti categorie (indicate dal metodo LIPT di H. Ege): attacchi ai contatti umani e alla possibilità di comunicare; isolamento sistematico; cambiamenti nelle mansioni lavorative; attacchi alla reputazione; violenze e/o minacce di violenza.

5. Dislivello tra antagonisti

Questo parametro indica che per il riconoscimento del mobbing la vittima deve essere in una posizione di inferiorità. Il dislivello di potere implica il fatto che la vittima sia confinata nella posizione più debole, resa incapace di difendersi dalle strategie di attacco usate dell’aggressore.

6. Andamento secondo fasi successive

Questo parametro si riferisce al fatto che la vicenda abbia raggiunto almeno la II° fase del modello Ege, ovvero quella in cui il conflitto si è incanalato nella direzione di una determinata vittima, che comincia a percepire l’inasprimento delle relazioni interpersonali e un crescente disagio psicologico. In estrema sintesi, ciò significa che si è passati da una condizione iniziale di conflitto “fisiologico” e generalizzato (Condizione Zero), ad una fase in cui viene individuata una vittima (Fase I: conflitto mirato) ad una, successiva, in cui gli attacchi da parte del mobber suscitano un senso di disagio e fastidio, anche se non causano ancora sintomi o malattie di tipo psico-somatico (Fase II). La fase successiva (Fase III) prevede invece che la vittima cominci a manifestare dei problemi di salute e questa situazione può protrarsi anche per lungo tempo. Questi primi sintomi riguardano in genere un senso di insicurezza, l’insorgere di insonnia e problemi digestivi.

7. Intento persecutorio

Un aspetto cruciale del mobbing consiste nell’effettiva intenzionalità dell’aggressore di nuocere, attraverso la messa in atto di comportamenti che possono mettere in cattiva luce la persona, danneggiarla o danneggiarne la reputazione professionale o alcuni aspetti del ruolo lavorativo, fino a tentare di escluderla dal contesto lavorativo in cui opera. Perché sia rispettato questo parametro, nella vicenda deve essere riscontrabile un’intenzionalità vessatoria coerente e finalizzata, chiaramente ostile e negativa.

Ci sono poi altre azioni di mobbing (sempre indicati nel modello di valutazione di Ege), come ad esempio l’istigare i colleghi contro la vittima, mettere ripetutamente in atto comportamenti provocatori per costringere la vittima a reagire in maniera non controllata, muovere accuse false e fare in modo che l’opinione di una parte dell’azienda venga resa ostile nei suoi confronti.

Se è mobbing, cosa fare?

Dopo aver verificato la presenza di questi parametri cosa è opportuni fare? Occorre attivarsi e consultare centri e professionisti competenti, senza dimenticare di prendersi cura anche delle proprie condizioni psicologiche, messe alla prova non soltanto dalle vessazioni subite al lavoro ma da tutto ciò che comporta il dimostrare di essere stati vittime di mobbing.

Per questo, è consigliabile attivare un adeguato sostegno psicologico, con un professionista o attraverso i centri specializzati, per non compromettere ulteriormente la propria salute psicologica e il proprio equilibrio lavorativo, familiare e sociale.

Psicoterapia del lavoro

Psicoterapia del lavoroSe la parola “psicoterapia” non fosse così marcatamente connotata di significato medico, potremmo dire che moltissime persone nel lavoro prima o poi hanno bisogno di psicoterapia.

Per poter pensare di servirsene senza che ciò abbia carattere di eccezionalità o di estrema ratio dobbiamo allontanarci dall’idea che la psicoterapia sia la “cura dei matti” o che sia un aiuto a cui ricorrere solo nel caso di gravi problemi psichiatrici o di indicibili traumi. O di condizioni di prostrazione psicologica fortemente inabilitanti. Se la pensassimo a questo modo è come se, per fare un parallelo, ci rivolgessimo al medico solo quando la nostra vita è in grave pericolo o andassimo dal fisioterapista solo quando non siamo più in grado di muoverci e camminare o se chiedessimo un consulto all’oculista quando siamo prossimi alla cecità. Ma in questi ambiti non facciamo così.

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